Troppo spesso la storia dell’arte è una storia interna alla successione degli stili artistici, una storia cioè in cui pittori, correnti e scuole sembrano avvicendarsi, secondo le diverse interpretazioni, in un incessante processo di causa-effetto o di continue rivoluzioni. È quasi come se la storia dell’arte e degli artisti si dipanasse senza essere toccata dalla storia della cultura, della filosofia e della scienza, e ogni mutamento, trasformazione o rivoluzione si producesse solamente dall’interno del mondo dell’arte stesso. È in questo modo che l’arte contemporanea è ormai "contemporanea" da più di cent’anni (che la si faccia nascere con Cezanne o Klee o Duchamp) e l’arte astratta è diventata una delle diverse soluzioni in cui si declina un’idea superficiale di "arte per l’arte": un modo di ottenere il massimo della potenzialità pittorica rinunciando alla rappresentazione della figura per concentrarsi su ciò che è "semplicemente" l’essenza della pittura, ovvero le linee, le forme, i colori. Questa interpretazione, che può anche essere corretta per alcuni artisti, è però viziata da un eccesso di autoreferenzialità. Nel suo ultimo lavoro Stefano Poggi lo illustra con chiarezza. Ricostruendo sapientemente i primi venti anni del XX secolo e il momento della nascita dell’arte astratta, Poggi ci mostra come in realtà il movimento verso l’astrazione non sia stato un movimento semplicemente interno alla pittura o all’arte, ma sia stato piuttosto il risultato di un fermento culturale che ha coinvolto numerose discipline – dalla scienza alla filosofia e all’estetica – in tutta Europa, e in modo particolare nel mondo tedesco, tra la fine del XIX e degli inizi del XX secolo. Con maggior precisione, è al mondo della cultura in senso lato e a quello della scienza in particolare che Poggi dedica la sua attenzione. Ciò è testimoniato soprattutto dai protagonisti di questa storia. Infatti, accanto ai nomi dei maggiori artisti del volgere del secolo sono presenti quelli di personalità della cultura dell’epoca (Eduard von Hartmann, Carl du Prel, Max Nordau, Rudolf Steiner, Otto Weininger), di scienziati (Ernst Haeckel, Hermann von Helhmoltz, Ernst Mach, Ewald Hering, Wilhelm Ostwald) e di alcuni filosofi (Ernst Bloch, György Lukács, Georg Simmel e Ludwig Wittgenstein).
È comunque proprio alla riflessione scientifica che occorre guardare con attenzione. L’influenza di Goethe, Schopenhauer e Nietzsche, degli ultimi fuochi del Romanticismo e della riscoperta della mistica antica e medievale (su tutti Meister Eckhart) non sono che alcuni dei momenti più significativi dell’emergere e del consolidarsi di una convinzione che è anche e soprattutto scientifica, secondo cui il linguaggio formalizzato delle scienze non è sufficiente per cogliere ed esprimere l’intima essenza della natura, ciò che realmente si nasconde oltre i limiti dei sensi. Se questa esperienza è possibile, allora si tratta di un’esperienza prossima a quella mistica, un’esperienza grazie alla quale è possibile oltrepassare i limiti della ragione e dei sensi per giungere finalmente a cogliere il nucleo che si nasconde al di là delle apparenze della realtà. E se questa esperienza è possibile, non può essere che artistica. L’arte è dunque riconosciuta, prima di tutto, come una forma di conoscenza; anzi come la forma più alta di conoscenza, quella che consente di oltrepassare i limiti della filosofia e della scienza. L’opera d’arte non può certo essere precisa come il numero o la parola, ma è sicuramente in grado di far condividere a chi la fruisce la medesima esperienza conoscitiva dell’artista nel momento della creazione: attingere quel nucleo essenziale del reale la cui purezza e perfezione troverà espressione nella ricorrente metafora del cristallo. Ecco allora che il processo di astrazione non è più soltanto una ricerca meramente artistica o pittorica, ma è una forma della conoscenza grazie alla quale l’esperienza viene depurata di tutto ciò che la separa dall’intima essenza della natura e dell’uomo. La traccia maggiore di questa trasformazione è data dal modo in cui sembra necessario riflettere sui concetti di "forma" e di "ideale", sulle specificità di organico e inorganico e sul loro rispettivo legame con l’essenza cristallina o con l’armonia del vivente. Basti un esempio. Riprendendo l’interpretazione di Goethe proposta da Steiner, Poggi ricorda come «nel caso della natura organica l’ideale ci fa cogliere lo sviluppo armonico di un organismo come coordinazione e trasformazione di materie inorganiche; nel caso dei processi dell’inorganico, l’ideale si presenta come la legge che presiede al verificarsi dei fenomeni» (p. 46).
Da questo straordinario momento storico, di cui Poggi ci restituisce tutta la complessità e la vivacità, emergeranno perciò una nuova concezione della pittura (e dell’architettura e della musica) in cui un ruolo privilegiato verrà riconosciuto al colore come strumento più efficace per oltrepassare i limiti della percezione sensibile, così legata alla rappresentazione della figura: «Marianne Werefkin deprecava che assai spesso fossero stati proprio gli artisti a dimenticare quella che invece è una vera legge di natura: la legge per cui il colore ha il potere di "dissolvere la forma", s’intende la forma della figura» (p. 100).
Un’ultima considerazione. Il libro di Poggi ci fornisce strumenti utili anche per comprendere quanto è avvenuto successivamente al periodo storico preso in esame: una riflessione sull’astrazione e sul colore, che oltrepassa gli orizzonti ristretti di una storia dell’arte concentrata solo su se stessa, consente, limitandoci a un esempio italiano, di dare nuova luce anche a sviluppi artistici più recenti, su tutti il "colore di posizione" (secondo la definizione di Cesare Brandi) di Giorgio Morandi e l’elisione della presenza dell’artista nell’opera d’arte proposta da Piero Manzoni (come esito finale di una linea Fontana-Burri-Manzoni).