“Età della storia” è un’espressione usata da David Hume per indicare il prodigioso fiorire di storie nazionali ed europee nel Settecento scozzese. Francesconi la riprende per evidenziare la centralità che il discorso storiografico ha assunto nella cultura settecentesca, contrariamente ai tanti luoghi comuni che continuano a pensare la ragione illuministica troppo astratta e universalistica per poter comprendere l’individualità e particolarità dell’accadere storico. Si deve alla saggezza interpretativa del grande antichista Arnaldo Momigliano aver colto l’apporto fondamentale dato dai più acuti storici del Settecento alla formazione del metodo storico, grazie alla coniugazione dell’antiquaria con una prospettiva interpretativa volta a cogliere le dinamiche istituzionali, economiche e culturali di lungo periodo che innervano il processo di sviluppo della civiltà. Valorizzando a pieno questa idea di Momigliano, Francesconi si è concentrato sulla dimensione propriamente narrativa delle storie settecentesche, arrivando a delineare un’analisi molto più sfaccettata e attenta alle sfumature del modo di scrivere storia nel Settecento. Il libro prende in esame tutti i grandi storici scozzesi del Settecento (David Hume, Adam Smith, William Robertson, Adam Ferguson), con strategiche incursioni oltremanica dedicate a Voltaire e Montesquieu. La chiave interpretativa più feconda dello studio sta nell’attenzione ai linguaggi della casualità, in quanto permette di dar conto della varia modulazione di generi storiografici che si dispiegò nel Settecento, dalle storie filosofiche più attente alle trasformazioni di costumi, mentalità e rapporti istituzionali alle storie narrative di breve e medio termine, dominate dal primato architettonico della politica. Fu proprio nelle storie narrative che i vari piani di periodizzazione e di mutamento storico trovarono una sistemazione compiuta in un discorso argomentativo capace di rispettare la complessità del divenire storico. A questo livello si pone la specificità propria della storiografia settecentesca, cioè il valore assegnato alle conseguenze inattese, in quanto rivelatrici di quei nessi profondi che, a posteriori, potevano dar conto di un’interdipendenza di fattori morali, economici, politici, sociali e culturali inattingibile dagli attori storici. Tale impostazione resta debitrice della riflessione di Bernard Mandeville, la cui formula vizi privati, benefìci pubblici indicava un nuovo modo di intendere il legame sociale degli individui e i meccanismi di sviluppo della società. Aver reso conto di tale debito e, soprattutto, delle molteplici varianti del linguaggio delle conseguenze inattese è uno dei meriti principali di questo libro.