I dieci capitoli in cui si articola il volume di Giuseppe Cambiano hanno l’intento di mostrare in che modo, in un intervallo di tempo molto ampio, che va dal Cinquecento alla metà dell’Ottocento, i pensatori politici e i filosofi europei abbiano guardato agli autori antichi, greci e latini, per rintracciare nelle loro opere chiavi di lettura e strumenti interpretativi che potessero essere adeguatamente riutilizzati per discutere e affrontare le questioni che assillavano il loro presente: dal problema della schiavitù alla fondazione dello Stato, dal concetto di rappresentanza al federalismo, fino alla relazione tra sfera pubblica e sfera privata. Uno dei contributi della raccolta (nello specifico il capitolo quarto) è dedicato all’analisi degli Askemata di Shaftesbury, gli scritti non destinati alla pubblicazione redatti dopo che l’autore della Lettera sull’entusiasmo si era allontanato nel 1698 dalla vita politica attiva lasciando il Parlamento inglese, dove aveva militato nel gruppo dei whigs, e decidendo di recarsi in Olanda. Fortemente influenzati dal clima culturale seguito alla Gloriosa rivoluzione del 1688-1689, gli Askemata sono la traccia di una particolare forma di quietismo politico, che considera le cose del mondo votate inesorabilmente al declino e che denuncia l’inutilità di tutti i progetti di riforma, accusati di ignorare il reale funzionamento delle vicende umane e di voler intervenire in modo empio sull’ordine perfetto stabilito dalla creazione divina. Se l’attenzione doveva essere posta sul governo di sé più che su quello della comunità, questo non significava per Shaftesbury che ci si dovesse astenere completamente dall’azione e dalla partecipazione alla vita pubblica. Era infatti necessario che il singolo si adoperasse, per quanto stava nelle sue possibilità, per il benessere degli altri, in accordo con il suo senso morale e la sua naturale socievolezza; ciò da cui bisognava guardarsi erano soprattutto gli eccessi dell’impegno civile, che trovavano un bersaglio polemico nei viaggi siracusani di Platone. In queste riflessioni, nota Cambiano, determinante è l’influenza dello stoicismo di età imperiale, che aveva vissuto una generale rinascita in Europa a partire dalla fine del Cinquecento grazie soprattutto all’umanista fiammingo Giusto Lipsio. Da una parte, deve essere certamente riconosciuto il ruolo di Epitteto, da cui Shaftesbury ricavava la distinzione tra ciò che dipende e ciò che non dipende da noi e l’importanza per l’agire morale delle rappresentazioni che l’uomo si fa delle cose. Dall’altra parte, ben più significativo e costante sembra essere il peso esercitato dai Pensieri di Marco Aurelio, di cui nel 1633 era stata pubblicata la prima versione inglese ad opera di Meric Casaubon, sotto l’egida del re Carlo I e dell’arcivescovo di Canterbury William Laud. Dalle considerazioni dell’imperatore romano Shaftesbury recuperava il tema delle fugacità del mondo e la consapevolezza che l’individuo appartiene a una totalità cosmica, soggetta a leggi razionali. Parallelamente alla rivalutazione di Epitteto e Marco Aurelio, emerge in Shaftesbury una ferma condanna di Seneca, fondata su ragioni insieme letterarie e filosofiche. Anzitutto, Shaftesbury distingue tra il Seneca uomo politico e patriota, che aveva meritoriamente tentato di mitigare gli effetti della tirannide instaurata da Augusto, e il Seneca scrittore, reo di aver corrotto l’eloquenza romana con il suo stile incoerente e asistematico, in cui si rifletteva la corruzione politica e morale che caratterizzava la società imperiale. In secondo luogo, Shaftesbury imputa a Seneca una scarsa conoscenza filosofica e una nociva inclinazione verso le scienze. Il suo scrittore antico di riferimento rimaneva Orazio, di cui forniva un’interpretazione in chiave repubblicana, ben compendiata in una lettera indirizzata nell’ottobre 1706 a Pierre Coste, traduttore in francese del Saggio sull’intelletto umano di Locke. Qui Shaftesbury avanzava una ricostruzione della biografia oraziana organizzata attorno a tre grandi periodi. Nel primo, che era coinciso con il suo arruolamento nell’esercito di Bruto e la sua partecipazione alla battaglia di Filippi, Orazio era stato un vero free republican, aderente ai princìpi dello stoicismo e anche all’idea socratica di una coincidenza tra teoria e prassi. La seconda fase, che Shaftesbury definiva esplicitamente «servile», si era svolta a corte, sotto la protezione di Mecenate e di Augusto e sotto l’influenza della filosofia epicurea. Il terzo periodo, caratterizzato dal ritiro nella Sabina, segnava la fine dell’impegno civile e la possibilità di esprimere il suo pensiero solo in forma dissimulata, come accade nella sesta satira del II libro, laddove dietro il topo di città doveva celarsi Mecenate e nel topo di campagna Orazio stesso. Del resto, l’interesse di Shaftesbury per l’opera oraziana si combinava con il recupero di alcuni valori della tradizione repubblicana, molti dei quali desunti da James Harrington, quali la nozione di sensus communis, il rapporto tra potere e proprietà terriera, utilizzato per spiegare in prospettiva storica il potere secolare conquistato dalla Chiesa, e l’importanza della competizione e dell’emulazione, che era stata all’origine della grandezza della politica della Grecia antica, specie ateniese.
Negli ultimi anni della vita da Shaftesbury si diffusero in territorio inglese autorevoli riletture in chiave religiosa e politica del pensiero di Cicerone, attentamente analizzate da Cambiano nel capitolo quinto della sua raccolta. Nel 1712, infatti, l’irlandese John Toland pensò di realizzare una nuova edizione di tutte le opere dell’Arpinate, progetto mai portato a termine e di cui resta soltanto lo scritto introduttivo in cui vengono illustrate le linee guida che avrebbero dovuto ispirarlo. Gli scopi principali di Toland consistevano nel sottrarre Cicerone alla nefasta influenza esercitata dalla pedagogia del tempo, che tendeva a vedere nei suoi scritti soltanto un repertorio di esercizi di stile ad uso degli studenti; nel difenderlo dalle accuse di vanagloria e autocelebrazione che si basavano su un’interpretazione distorta della lettera a Lucceio, in cui Cicerone invitava il suo interlocutore a redigere una storia del suo consolato; e nel rivalutare il suo ruolo nella società romana non solo come scrittore, ma anche come politico e filosofo. L’iniziativa non era destinata a eruditi e specialisti, delle cui controversie Toland si prendeva ironicamente gioco, ma a un pubblico colto, impegnato nell’amministrazione degli affari della città e della giustizia, che doveva servirsi delle riflessioni ciceroniane allo scopo di applicarle nell’esercizio concreto delle proprie professioni. Per questa ragione Toland pensava di limitare l’apparato critico all’essenziale e di rivolgere la propria attenzione soprattutto a ripristinare la genuina sententia di Cicerone, rinvenibile nel de divinatione e nella posizione espressa da Cotta nel de natura deorum. Da questo lavoro – come Toland ribadisce in altri suoi celebri scritti, dalle Lettere a Serena (1704), indirizzate alla regina Sofia Carlotta di Prussia, al Pantheisticon (1720) – sarebbe dovuta emergere la figura di un Cicerone modello di tolleranza e coerente difensore dell’autentica religione dagli assalti della superstizione, considerata più nociva dell’ateismo. La sua grandezza stava nell’essere riuscito a mettere in discussione la retorica sacrificale e idolatrica che permeava il paganesimo e nell’aver anticipato la condanna di alcuni dogmi cristiani, come la credenza nell’immortalità dell’anima. Sulla stessa linea di Toland si poneva anche Anthony Collins, che in un libello pubblicato anonimo nel 1713, Discorso sul libero pensiero, guardava a Cicerone come a un libero pensatore ante litteram, il quale nel de natura deorum aveva mostrato la fragilità delle argomentazioni stoiche e nel de divinatione aveva demolito la religione dei greci e dei romani, rivelando l’impostura che si celava dietro miracoli e prodigi. Se talvolta a un lettore moderno Cicerone poteva apparire favorevole alla superstizione era soltanto perché in alcuni suoi scritti si era rivolto direttamente alla plebe romana, utilizzando argomentazioni a quella comprensibili. A questa lettura si opponeva l’eminente filologo Richard Bentley che, in una lettera apparsa anch’essa anonima nello stesso anno, metteva alla berlina le tesi di Collins, e indirettamente di Toland, che gli apparivano fondate su un grave fraintendimento dell’opera ciceroniana. Non c’erano infatti evidenze testuali sulla base delle quali poter desumere che Cicerone avesse rifiutato l’esistenza degli dèi o l’immortalità dell’anima. Protagonista anche dei dibattiti politici dell’epoca, del resto strettamente intrecciati a queste considerazioni religiose, Cicerone era spesso esaltato per aver intuito il primato della vita attiva su quella contemplativa e per aver teorizzato, ben prima di Harrington e della sua Oceana (1656), il valore di una res publica potenzialmente immortale, capace di resistere alla frammentazione interna e all’azione disgregatrice di forze esterne. In un periodo di profonde divisioni nella politica inglese, numerosi pamphlet consideravano gli scritti ciceroniani come l’espressione della stabilità e della prudenza contro il fanatismo e gli eccessi di Catone Uticense, troppo fedele agli assurdi dettami degli stoici. Tale contrapposizione permea anche la biografia composta in due volumi da Conyers Middleton nel 1741, History of the Life of Marcus Tullius Cicero. Dall’opera, che conobbe una buona circolazione in Europa anche grazie alla tempestiva traduzione francese proposta dell’abbé Prévost due anni dopo, emergeva ancora una volta l’immagine di un Cicerone moderato, il cui principale obiettivo politico era consistito nel tentativo di ristabilire l’antica costituzione romana e nel garantire l’unità tra aristocrazia senatoria e ordine equestre in funzione antipopolare. Dall’ardito accostamento avanzato da Middleton tra Cicerone ed Erasmo non poteva che discendere un giudizio negativo tanto su Cesare, che non aveva disdegnato di ricorrere alla forza e alla violenza pur di governare, quanto su Augusto, campione di dissimulazione e dissoluzione.
I casi a cui qui brevemente si è fatto cenno – tra i tanti possibili nel ricco volume di Cambiano, davvero ammirevole per la capacità di combinare l’esame filologico dei testi con una raffinata analisi teoretica – mostrano come in età moderna il pensiero antico, non solo quello di carattere più propriamente filosofico, fu oggetto di interpretazioni e valutazioni discordanti e talvolta terreno di scontro teologico e politico. Intellettuali molto distanti per provenienza e formazione, peraltro vissuti in epoche e contesti diversi dal punto di vista sociale e politico (da momenti di quiete a periodi attraversati da fermenti rivoluzionari), guardarono alla classicità per cercare una conferma alle proprie convinzioni o ai propri progetti, per elaborare modelli di comportamento e per operare comparazioni sul lungo periodo, spesso con una certa disinvoltura interpretativa, non immune da forzature e distorsioni storiche. Il risultato fu che in alcuni casi si fissarono immagini del mondo antico capaci di sopravvivere ben al di là dell’epoca in cui erano state proposte e di condizionare in profondità la cultura europea.