Il volume di Agostino Paravicini Bagliani segue l’evoluzione normativa, rituale e simbolica della morte e dell’elezione del papa dal terzo secolo fino alla metà del quindicesimo. Il libro rientra in un progetto editoriale più ampio, che si completerà con la pubblicazione di una ricerca di Maria Antonietta Visceglia sugli sviluppi dello stesso tema in età moderna.
Nel primo capitolo Paravicini Bagliani individua le maggiori innovazioni normative nelle procedure medievali di elezione dei papi. Una delle prime risale al 1059, quando, dopo le turbolenze seguite alla morte di Stefano IX, un decreto del sinodo romano riservò il compito di eleggere il nuovo pontefice ai cardinali (guidati dai cardinali vescovi), riconoscendo al clero e al popolo soltanto il diritto di acclamarlo. La decisione del sinodo, convocato da Niccolò II nella basilica del Laterano, era volta a contrastare le ingerenze dell’aristocrazia romana, in linea con quel processo di esclusione dei laici auspicato fin dal 769 da Stefano III. Nonostante il decreto del 1059, in poco più di un secolo si susseguirono almeno sette doppie elezioni. Per scongiurare il rischio di nuovi scismi, nel 1179 Alessandro III stabilì con il decreto Licet de vitanda che, in caso di non unanimità, l’elezione del papa sarebbe stata valida solo se avesse ricevuto il consenso dei due terzi dei cardinali. L’accresciuto prestigio istituzionale del collegio cardinalizio non riuscì tuttavia a impedire ritardi. È proprio nel Duecento, infatti, che si assistette a lunghe vacanze della sede pontificia, alle quali le autorità cittadine cercarono talvolta di porre rimedio: nel 1241 il senatore Matteo Rosso Orsini ordinò la reclusione forzata dei cardinali nel palazzo romano del Settizonio e dopo la morte di Clemente IV, avvenuta nel 1268, si arrivò a scoperchiare il tetto del palazzo dei papi a Viterbo, esponendo alle intemperie i cardinali che vi erano riuniti. Nel 1274 Gregorio X decise di reagire a questo stato di cose, istituendo il conclave: con il decreto Ubi periculum obbligò i cardinali a rimanere nella stessa località in cui il papa era morto e ad attendere gli assenti soltanto per dieci giorni. Trascorso questo periodo, i cardinali avrebbero dovuto radunarsi nel palazzo in cui il papa defunto aveva abitato, accompagnati da un solo servitore: la loro clausura doveva essere assoluta e sottoposta a restrizioni alimentari. Benché nel 1351 Clemente VI avesse introdotto alcune innovazioni sulle condizioni materiali dei cardinali durante il conclave, la costituzione gregoriana segnò per molti aspetti un punto di non ritorno.
Nel secondo capitolo Paravicini Bagliani si concentra sulle cerimonie di insediamento del papa e sulla loro duplice funzione di glorificazione e di autoumiliazione. Esemplare in questo senso è il rito della sedia stercorata o stercoraria, situata davanti al portico della basilica lateranense, sulla quale il papa era posto dai due cardinali più anziani. Stando ai libri cerimoniali, il nome della sedia si ispirava a un versetto del primo libro di Samuele, secondo il quale il Signore «solleva dalla polvere il debole, dall’immondizia (de stercore) rialza il povero, per farli sedere con i nobili e assegnare loro un trono di gloria» (1 Sam 2,8). Da un lato, la sedia indicava la maestà del potere pontificio; dall’altro, dato il legame con la parola stercus, essa ricordava al papa la sua condizione umana e la transitorietà del suo potere. Il rito, inoltre, era un caso di imitatio imperii, poiché sul basamento marmoreo della sedia erano raffigurati dragoni, serpenti e leoni, che rimandavano alle decorazioni del trono dei sovrani altomedievali. La retorica della gloria e quella dell’autoumiliazione coesistevano anche in un’altra cerimonia di intronizzazione, che si svolgeva davanti alla cappella di San Silvestro. Qui il papa sedeva su due seggi di marmo rosso antico, ritenuti allora di porfido, materiale legato alla dignità regale: sul trono di destra, riceveva la ferula, simbolo della presa di possesso del palazzo, e le chiavi, chiaro riferimento apostolico; su quello di sinistra, invece, era cinto da un cingolo rosso, che alludeva alla castità, a cui era appesa una borsa contenente del muschio e dodici pietre preziose, in ricordo degli apostoli. Le due sedie, che rappresentavano il primato di Pietro e la predicazione di Paolo, sono descritte alla fine del XII secolo nei cerimoniali di Albino e Cencio come due lectuli, sui quali il papa doveva «sembrare di giacere», in una sorta di anticipazione della sua morte.
In seguito alla Riforma gregoriana i due registri dell’esaltazione e della caducità penetrarono anche nei riti funebri, a cui è dedicato il terzo capitolo del libro. Da una parte, si sviluppò un cerimoniale solenne, che alla fine del Duecento sarebbe culminato nei novendiali e nei processi di glorificazione del defunto, come l’attenzione meticolosa alla preparazione della salma per la sua esposizione pubblica, la messa a punto di tecniche di imbalsamazione sempre più complesse e la vestizione con i paramenti sacri. Dall’altra, prese avvio un discorso retorico sulla brevità della vita dei pontefici con l’epistola scritta nel 1064 da Pier Damiani ad Alessandro II. Da entrambe queste prospettive, spesso intrecciate tra loro, emerge il contrasto tra la transitorietà della vita del pontefice e la perennità dell’istituzione che egli rappresenta. In conclusione, secondo Paravicini Bagliani, i riti e i simboli dell’elezione e della morte del pontefice si integravano in un sistema unico, destinato a garantire la continuità della Chiesa, al di là della fragilità della dimensione corporea del vicario di Cristo.