A guidare questa brillante e poderosa ricerca di Jörg Rüpke, che si propone di fornire una lettura originale delle complesse vicende religiose di Roma dall’età del ferro all’avvento del cristianesimo, è l’idea che la religione antica non debba essere intesa come un sistema coerente e unanimemente accettato di riti e credenze o come un’organizzazione stabile tendente a delimitare un confine netto tra fedeli e non fedeli e a vigilare sul rispetto dell’ortodossia e dell’ortoprassi, ma anzitutto come una forma di comunicazione che coinvolge esseri umani e attori che godono di uno statuto particolare e non sempre definito in modo chiaro (possono essere, ad esempio, di condizione mortale o immortale e possono essere assimilati a dèi o demoni), a cui sono riconosciuti poteri e qualità superiori o comunque differenti rispetto a quelli ordinariamente associati all’ordine naturale. Ciò che Rüpke definisce la «plausibilità» di questi attori, compresa la loro esistenza, poteva essere accettata da alcuni e contemporaneamente messa in discussione e rifiutata da altri, come del resto testimoniano le vivaci discussioni sulla reale presenza delle divinità nelle statue e nei templi e l’incertezza che a lungo circondò l’interpretazione dell’esito dei sacrifici. Da qui l’importanza attribuita da Rüpke all’agire religioso del singolo più che a quello della comunità e l’interesse rivolto alle soluzioni, a volte creative e innovative, escogitate dagli individui per rispondere a problemi comuni o inediti. Mentre la comunicazione religiosa dei cittadini meno abbienti si svolgeva per la maggior parte in ambienti familiari, come la casa, la strada e la tomba degli antenati, nel caso dei romani facoltosi poteva esprimersi attraverso l’allestimento di suntuosi banchetti, la realizzazione di giochi pubblici negli anfiteatri o la costruzione di templi e poteva assumere forme differenti a seconda delle intenzioni che muovevano i proponenti. Alla fine del II secolo a.C., ad esempio, il mercante d’olio Marco Ottavio Erennio, optando per una scelta decisamente insolita, fece edificare nel Foro Boario un tempio circolare dedicato a Ercole vincitore (il primo tempio in marmo di Roma ad essersi conservato), affidando probabilmente l’opera a un riconosciuto architetto del tempo, il greco Ermodoro di Salamina. Il tempio non aveva un podio e una facciata e le venti colonne da cui era formato erano così vicine tra loro da ostruire la vista della parte più rilevante dal punto di vista architettonico e religioso, la cella, e da oscurare, almeno a chi lo avesse visto da lontano, anche l’entrata. I materiali utilizzati per la sua edificazione – il marmo pentelico di origine attica per le colonne, il travertino per i muri e il tufo di Grotta Oscura per le fondamenta – rivelano sia un’inconsueta abilità costruttiva sia l’agiatezza del committente. Scelte “estetiche” decisamente diverse convinsero qualche decennio più tardi il console Quinto Lutazio Catulo a promuovere i lavori nel Campo Marzio per un altro tempio circolare, questa volta in onore di Fortuna huiusce diei, la “Fortuna del giorno presente”. Qui la struttura si ergeva su un podio alto due metri e mezzo, a cui si accedeva attraverso un’ampia scalinata. Circondata da diciotto colonne con basamenti attici e capitelli corinzi, la costruzione raggiungeva un’altezza totale di undici metri. All’interno campeggiava una colossale immagine della Fortuna, una statua in marmo e bronzo, posizionata in modo tale da colpire immediatamente lo sguardo del visitatore e da essere scorta persino da una grande distanza. Se nel caso del tempio di Ercole l’evergeta sembrava voler nascondere la statua destinata al culto, forse scolpita da Skopas Minore, quasi per proteggerne la sacralità all’interno del tempio, nel secondo caso l’intento era esibirne la grandiosità. Decisioni che non dipendevano solo dal gusto dei dedicatari, ma erano anche legate alle loro motivazioni: Erennio voleva ringraziare gli dèi per essere riuscito a respingere un attacco mosso dai pirati ai suoi preziosi carichi; Catulo, invece, desiderava appropriarsi della vittoria conseguita, nel 101 a.C., insieme a Gaio Mario sui Cimbri a Vercelli.
Anche la devozione riservata a divinità straniere poteva seguire percorsi comunicativi differenti. Alla metà del II secolo d.C. un certo Astragalo, che faceva parte dei custodi del tempio di Iside, commissionò un altare in marmo in onore della dea egizia: su uno dei lati era raffigurato un uomo, da identificarsi con un sacerdote, che teneva in mano una colomba sopra un altare ricolmo di frutti; sul lato opposto c’era una donna con una corona di loto in testa che stringeva tra le mani il sistrum, ossia il sonaglio tipico di Iside e alcuni utensili rituali, in particolare una scodella per il cibo e un secchiello. La singolarità, anche per un romano del tempo, era che l’iscrizione dedicatoria scelta per la parte frontale dell’altare si concludeva con una formula tradizionalmente impiegata all’inizio delle epigrafi funerarie, Dis Manibus. Non solo dunque Astragalo combinava la religione tradizionale romana con i nuovi culti, ma provava a stabilire un legame eterno, capace di oltrepassare i limiti dell’esistenza terrena, tra la figura del sacerdote, da identificarsi forse con lui stesso, e quella di Iside. Mire politiche ben più ambiziose spinsero, nella prima età severiana, un personaggio di rango ben superiore a quello di Astragalo, Lucio Ceio Privato, a far costruire una statua in marmo di Iside Regina per celebrare la propria promozione da subprinceps a princeps castrorum. Onorando la dea favorita dalla dinastia imperiale, con una dedica alla base della scultura, Privato invocava la salus degli Augusti e istituiva un parallelismo tra la propria carica e le figure dell’imperatore Geta, quale princeps iuventutis, e di sua madre, Giulia Domna, mater castrorum. Se col suo gesto Astragalo intendeva ritagliarsi, sul piano religioso, spazi di manovra che gli erano altrimenti preclusi a causa della sua bassa condizione sociale, l’intento di Privato era inserirsi nella particolare relazione che legava la famiglia imperale alla dea. Ancora diversa è l’intenzione per la quale Decimo Valerio Chaereas decise di offrire un busto in argento della dea Serapide a un collegio religioso non meglio precisato, di cui egli stesso si presentava come quinquennalis perpetuus. L’iscrizione ricorda che al dono parteciparono anche un fratello di Chaereas, suo omonimo, e un certo Publio Elio Alessandro. I due personaggi probabilmente non vengono menzionati per il contributo economico sostenuto nella fabbricazione della statua, ma perché dovevano per così dire essere “segnalati” da Chaereas all’associazione di cui faceva parte e all’interno della quale ricopriva un così prestigioso incarico. In tutte queste circostanze, nota Rüpke, le divinità erano interpretate semplicemente come «segni» e «destinatari», come «campi d’azione» da utilizzare per affermare o accrescere il proprio prestigio religioso e sociale o provare a promuovere, come avviene con Chaereas, la reputazione di altri.
La comunicazione svolgeva un ruolo decisivo anche nei rituali inscenati prima e dopo le operazioni belliche. In epoca repubblicana si cominciava con la lustratio exercitus, durante la quale tre animali (un maiale, una pecora e un toro) venivano fatti sfilare attorno alle truppe o al campo militare con l’accompagnamento di musicisti e danzatori, e in seguito sacrificati. Si proseguiva con la consultazione degli auspici, che poteva avvenire nella forma dell’auspicium ex tripudiis, ossia attraverso l’osservazione del modo di mangiare dei polli: se questi beccavano avidamente il grano dato loro in pasto, si trattava di un presagio favorevole; in caso contrario, era più prudente abbandonare i propositi bellicosi. Dal momento che non era previsto nessun controllo pubblico del processo – solo i risultati, infatti, erano resi noti alla comunità – è del tutto superfluo ipotizzare alterazioni e manipolazioni volontarie del rito da parte degli officianti, come per esempio il tentativo di affamare i polli per accrescere il loro appetito. Tra i riti del ritorno dalle guerre spiccava in caso di vittoria l’indizione da parte del senato della supplicatio, ovvero la decisione di aprire tutti i templi cittadini in segno di ringraziamento verso gli dèi. Nel passaggio dalla repubblica al principato, il tempo riservato alle supplicationes si ampliò in modo esponenziale, fino a comprendere 50 giorni sotto Cesare e 840 sotto Augusto, come si ricorda nelle Res gestae, tanto che lo scarto tra l’ordinarietà del quotidiano e lo stato di eccezione faticava ormai a distinguersi. Vi era poi il complesso cerimoniale del trionfo, con l’ingresso dell’esercito vittorioso in città attraverso la Porta Triumphalis, il lungo corteggio dei prigionieri, l’esibizione del bottino conquistato (spolia opima) e la rappresentazione di scene di battaglia per mezzo di quadri viventi. Non si trattava di pratiche fisse, ma di azioni che potevano essere soggette a modifiche sostanziali a seconda del contesto e che potevano essere facilmente risemantizzate, negoziate o addirittura ignorate. Anche la redazione di testi scritti riguardanti questi aspetti tradizionali della religione, sostiene Rüpke, non aveva come obiettivo primario la loro codificazione e la conseguente imposizione di modelli, ma piuttosto aveva una valenza quasi esclusivamente pragmatica, capace peraltro di esercitare la propria influenza solo in aree geografiche limitate.
Una riflessione di più ampia portata sulla religione e sui suoi scopi iniziò a svilupparsi soltanto a partire dalla tarda repubblica, incoraggiando una trasformazione decisiva di cui si fece principale interprete Augusto. L’inizio del principato concise infatti per Rüpke con un fenomeno di «raddoppiamento della religione», che si espresse non solo nella febbrile attività edilizia, culminata nell’Ara Pacis Augustae, e nella riorganizzazione dei collegi sacerdotali, ma anche nel conio di monete con dediche, nella realizzazione di calendari in marmo, i fasti, e di iscrizioni cerimoniali, come quelle dei fratres Arvales conservate nel santuario della dea Dia, alle porte di Roma, e dei quindecemviri sacris faciundis. Si assistette pertanto a un vero e proprio processo di rivitalizzazione e appropriazione di riti tradizionali attraverso il quale Augusto puntò a rafforzare la propria autorità politica, concentrandola nella capitale dell’impero, che doveva diventare una sorta di luogo della memoria della sua famiglia. Soltanto con l’affermazione del cristianesimo intervenne un nuovo paradigma religioso, non più basato sull’azione e sulla comunicazione con il divino, come era avvenuto in passato, ma incardinato sull’idea di appartenenza e sulla necessità di possedere una conoscenza religiosa adeguata, di costruire reti aggregative più solide, di conservare il proprio status e di rafforzare le distinzioni gerarchiche. A favorire questo cambiamento fu non solo l’introduzione di nuove strutture sociali ed economiche, ma anche l’originaria vocazione profetica del cristianesimo e il suo legame, altrettanto fondativo, con specifiche letture e interpretazioni dei testi sacri, attorno a cui si raccolsero i vari gruppi. La religione del bacino del Mediterraneo iniziò così a coincidere sempre più con una forma di identità collettiva in grado di marcare le differenze all’interno e all’esterno e di dar vita a quelle istituzioni che avrebbero caratterizzato in modo significativo i secoli successivi.