Paura, reverenza, terrore

Cinque saggi di iconografia politica


Il volume di Carlo Ginzburg raccoglie cinque saggi in cui vengono analizzate alcune opere della storia dell’arte europea moderna e contemporanea attraverso un particolare strumento di indagine, la nozione di Pathosformeln («formule di pathos»), introdotta per la prima volta da Aby Warburg nel 1905. Secondo Warburg, l’arte del primo Rinascimento aveva recuperato modelli di gestualità emotiva e patetica dell’antichità, ignorati o banditi dalla Chiesa medievale. L’intento di Ginzburg è utilizzare il concetto di Warburg in contesti diversi e più ampi rispetto a quello per il quale era stato elaborato inizialmente – l’arte rinascimentale, appunto – per giungere a una critica sull’uso delle immagini da parte della politica e del potere.
Il primo saggio è dedicato all’esame di una coppa di argento dorato, conservata alla Schatzkammer della Residenz di Monaco e realizzata ad Anversa tra il 1524 e il 1525. Si tratta di un oggetto composito, fatto di due strati sovrapposti, uno più antico e l’altro più recente. Il coperchio, la tazza e il piedistallo della coppa sono finemente decorati con immagini di esseri umani, animali, piante, edifici e paesaggi. Gli uomini sono nudi o seminudi e alcuni indossano copricapi piumati, altri sfoggiano collane; alcuni cavalcano, altri lottano e nuotano. Oltre ad animali reali (scimmie, tacchini, cavalli, elefanti, leoni e cammelli), fanno capolino esseri immaginari come un kynokephalos, cioè un uomo con la testa di cane, che cavalca un mostro marino con la testa di toro e la coda di serpente. L’ipotesi più probabile è che la coppa si riferisca a scene di vita degli indios americani, ispirate ai resoconti di Hernán Cortés sul Messico, che circolavano ad Anversa in traduzioni francesi e fiamminghe. L’autore, che secondo Ginzburg è l’orefice italiano Stefano Cappello, attivo alla corte di Margherita d’Austria, potrebbe essere stato influenzato anche da due incisioni italiane legate alla mitologia greca e romana, la Zuffa degli dèi marini di Mantegna e La battaglia dei nudi di Pollaiolo: attraverso tale mediazione le popolazione esotiche verrebbero rappresentate secondo motivi classici, ovvero secondo specifiche Pathosformeln.
Il secondo saggio prende in esame il celebre frontespizio della prima edizione del Leviatano (1651) di Thomas Hobbes, attribuito all’incisore Abraham Bosse. L’attenzione di Ginzburg si concentra sulla parte destra del frontespizio, dove sono presenti i profili di due medici della peste con il viso coperto dalla tradizionale maschera a becco. A guidare la ricerca è un indizio, sottile ma decisivo: l’utilizzo ricorrente da parte di Hobbes della parola awe, che Ginzburg propone di tradurre con reverenza o terrore. Essa compare non solo in alcuni passi del Leviatano in cui si descrive la nascita dello Stato e della religione, ma anche nella traduzione hobbesiana della pagina della Guerra del Peloponneso sugli effetti della peste ateniese del 429 a.C. In entrambi i casi mancano la legge e il corpo politico, che nell’Atene devastata dalla peste non ci sono più, mentre nello stato di natura non ci sono ancora. Per giungere alla definizione di regole condivise, il terrore – sia degli dèi sia delle leggi degli uomini – svolge secondo Ginzburg il ruolo fondamentale di incutere paura e soggezione. Lo Stato hobbesiano ha bisogno di ricorrere anche agli strumenti messi a disposizione dalla religione: la forza da sola non basta, servono anche il terrore e la reverenza. Hobbes è quindi l’iniziatore di una tradizione in cui la riflessione sullo Stato non può prescindere dalla teologia politica: la secolarizzazione non supera la religione, semplicemente le si sostituisce.
Nel terzo saggio Ginzburg si sofferma sull’intreccio tra arte, politica e religione nel quadro conosciuto generalmente come La morte di Marat (1793) di Jacques-Louis David, ma il cui titolo originale è Marat all’ultimo respiro, secondo un’indicazione del pittore. La tesi di Ginzburg è che David abbia raffigurato l’evento contingente della morte di Marat combinando elementi classici e cristiani in chiave politica. Tra i riferimenti alla cultura classica, un ruolo centrale è svolto da un sarcofago di età romana che rappresenta la morte di Meleagro, opera che David ebbe l’occasione di vedere durante il suo soggiorno a Roma tra il 1775 e il 1778 e che copiò sul suo taccuino. Per quanto riguarda la tradizione cristiana, il riferimento è a una scultura del 1703 del francese Pierre Legros, dedicata al gesuita polacco Stanislao Kostka e conservata presso il noviziato della chiesa romana di Sant’Andrea al Quirinale. Attraverso il riadattamento di temi dell’iconografia pagana e cristiana, messi al servizio dell’ideologia rivoluzionaria, il Marat è un chiaro esempio delle contraddizioni che caratterizzano il processo di secolarizzazione europeo: la Repubblica francese, sorta dalle ceneri della monarchia di diritto divino, cerca di legittimarsi invadendo la sfera religiosa e adottando i suoi stessi linguaggi.
Il quarto saggio riguarda il manifesto inglese per l’arruolamento nella Prima guerra mondiale, su cui campeggia il volto del generale Lord Kitchener che ebbe una diffusione straordinaria in Europa, negli Stati Uniti e nell’Unione Sovietica. Secondo Ginzburg il manifesto non si limita a riproporre modelli pubblicitari precedenti, ma è il risultato di influenze ben più antiche. In particolare, potrebbero aver agito sottotraccia due tradizioni pittoriche di carattere sacro: la prima dedicata alle figure frontali onniveggenti (si pensi alle icone menzionate nel De visione Dei di Cusano o al Cristo benedicente di Antonello da Messina e di Hans Memling), la seconda a figure viste di scorcio e con le dita puntate verso altri personaggi (come il Dio della volta della Cappella Sistina michelangiolesca e Gesù nella Vocazione di san Matteo di Caravaggio).
Il quinto e ultimo saggio della raccolta verte su Guernica, il dipinto di Picasso presentato per la prima volta in pubblico nel 1937 a Parigi. L’analisi di Ginzburg si dipana attraverso i numerosi rimaneggiamenti del murale, mostrando come esso sia disseminato di allusioni classicheggianti – la spada spezzata, il guerriero prostrato, il cavallo alato sul dorso del toro, che non compare nella versione definitiva – e come il suo stesso impianto sia condizionato dalla grandiosità e dal monumentalismo della pittura neoclassica. L’esame delle stratificazioni di Guernica rivelano che Picasso avrebbe progressivamente eliminato dalla sua opera ogni simbolo politico esplicito, come il pugno chiuso del guerriero caduto, generando così un evidente paradosso: nell’opera destinata a diventare l’icona dell’arte antifascista, il fascismo è del tutto assente.

Dati aggiuntivi

Autore
  • Carlo Ginzburg

    Professore di Studi rinascimentali italiani - University of California at Los Angeles

Anno pubblicazione 2015
Recensito da
Anno recensione 2015
ISBN 9788845930041
Comune Milano
Pagine 311
Editore