Il libro propone per la prima volta in traduzione italiana un saggio del filosofo francese Mikel Dufrenne pubblicato alla fine degli anni Settanta e dedicato alla discussione della possibilità di sviluppare una filosofia non teologica, ovvero una filosofia che non renda l’esperienza del mondo e della nascita del senso come l’incontro con un’alterità assoluta, totalmente diversa dal soggetto. L’ipotesi di fondo di Dufrenne è la seguente: se la teologia è la posizione di una distanza, la percezione è l’esperienza di un contatto tra l’uomo e il mondo possibile grazie alla comune appartenenza alla stessa natura.
L’interlocutore privilegiato e al contempo il bersaglio polemico del saggio è Jacques Derrida, filosofo che come Dufrenne afferisce all’ambiente fenomenologico francese, pur sviluppando percorsi autonomi rispetto all’impostazione husserliana. Le obiezioni mosse al pensiero della différance sono sostanzialmente due: la prima riguarda il suo presunto rimanere all’interno di una prospettiva logocentrica, la seconda si riferisce all’adozione di un modello ontologico che ricorda da vicino quello della teologia negativa. Si tratta evidentemente di due questioni poste in maniera provocatoria, nell’intento di spingere al limite il pensiero derridiano per poterne mostrare le contraddizioni interne e far risaltare per contrasto le soluzioni alternative proposte da Dufrenne. Per quanto riguarda il primo aspetto, bisogna interrogarsi su che tipo di uomo individui il discorso filosofico di Derrida: è un soggetto la cui esperienza fondamentale, anzi l’unica possibile per accedere al senso, rimane quella del linguaggio. In questo Dufrenne individua una chiusura autoreferenziale: se il linguaggio parla solo di sé, se il testo rinvia solo ad altri testi, viene completamente elusa la materialità delle cose. Affermando che Derrida rimane all’interno di una concezione grammaticale della significazione, Dufrenne intende dire che l’espressività continua a essere colta soltanto all’interno del sistema delle differenze, mentre non viene riconosciuta l’espressività immanente all’esperienza sensibile. Rimanere nel logocentrismo significa perciò definire il soggetto a partire dall’esperienza del linguaggio, senza considerare quella altrettanto fondamentale della percezione.
Da qui deriva il secondo aspetto problematico, che riguarda il modo in cui bisogna intendere l’alterità del mondo e degli enti. Nella storia della filosofia, a partire da Platone e passando per Hegel, il concetto di alterità ha conosciuto almeno due interpretazioni: o l’altro è un’alterità assoluta, cioè è ciò che differisce totalmente da me; o l’altro è un’alterità stabilita in rapporto a me, ossia è un’alterità rispetto a un’identità, quindi genera un movimento dialettico di ritorno all’identico. Secondo Dufrenne, Derrida sostiene una posizione del primo tipo e ciò lo conduce suo malgrado ad assumere un’impostazione teologica. Possiamo tralasciare infatti la ricerca di una definizione della differenza, ma non possiamo eludere la questione della modalità in cui agisce: come possiamo passare da questa misteriosa indeterminatezza originaria alla determinazione degli enti? In altri termini, posto che il dato originario è una differenza assoluta, rimane da chiarire come possano prodursi le differenze specifiche. Sostenendo che la traccia si cancella per non essere, Derrida ne fa una sorta di negativo continuamente al lavoro: «non creazione ex nihil, ma nihil creatore, indeterminato determinante!». Nel discorso derridiano, Dufrenne legge quindi in filigrana un’affinità con la teologia negativa: punto di partenza in entrambi i casi è l’esperienza di una negatività assoluta e senza vie d’uscita, poiché nessuna dialettica ne permette il superamento. L’analogia tra i due procedimenti risiede in un’esperienza dell’assenza che individua un’alterità non rappresentabile, che sia chiamata l’Uno, l’Inafferrabile o la traccia. Per evitare una simile deriva teologica, la proposta di Dufrenne è appellarsi a un’esperienza di tipo radicalmente diverso com’è l’esperienza originaria della presenza nella percezione. Si deve abbandonare quindi un’ontologia costruita a partire da un fondo negativo per pensare invece un’ontologia fenomenologica che muove da uno sfondo pre-umano e comune a tutti gli esseri viventi. Se infatti si fa della differenza il dato originario, allora si pone una distanza incolmabile tra questa condizione di partenza e la realtà degli enti, che finisce per riproporre il modello teologico della lontananza tra l’Essere e gli esseri. Lo stesso Derrida, del resto, scorgeva un presupposto teologico nell’affermazione heideggeriana della differenza ontico-ontologica, intesa come distanza incommensurabile tra l’essere e l’ente. Rivolgendo questa obiezione contro Derrida, Dufrenne sostiene che se il pensiero della differenza diventa il pensiero dell’alterità intesa come qualcosa di totalmente altro dal soggetto, allora è solo un altro nome del sacro.
La strada attraverso la quale Dufrenne può articolare una riflessione non teologica sull’origine è quella indicata da Merleau-Ponty, attraverso il riferimento alla Natura come fondamento di ogni esperienza e come ciò che è diverso dall’umano, ma non per questo è del tutto differente o anti-umano. Si chiarisce così anche il punto debole riconosciuto in Derrida: poiché il significato rinvia al concetto più che alla cosa, al pensabile più che al reale, allora la differenza sta sempre a indicare l’inafferrabile alterità dell’altro. Se invece il significato è ancorato alla realtà, ovvero è considerato come significato nascente che si dona nella percezione, allora diventa un’alterità di cui il soggetto può appropriarsi, in quanto la sua comprensione è garantita dall’appartenenza alla natura. Più che di differenza tra soggetto e oggetto, bisognerebbe parlare per Dufrenne di differenziazione, intesa come progressivo diversificarsi a partire da un substrato strabordante e fecondo, chiamato come già in Merleau-Ponty natura naturans o essere selvaggio. È quindi il soggetto che, nascendo, «introduce l’alterità nell’identico», ovvero si distacca come una figura dallo sfondo e inizia a instaurare a ogni nuova percezione delle differenze tra sé e le cose e tra le cose stesse.
Il tentativo di Dufrenne è dunque pensare l’origine senza appellarsi alla teologia, senza fare un salto nella trascendenza: in questo senso, si fa riferimento non a un’idea dell’origine, ma piuttosto a un’esperienza dell’originario, che è data nella percezione. Poiché, però, il nostro occhio non è più "puro" come lo era al momento del primo contatto percettivo, Dufrenne si rivolge all’arte come esperienza che permette di rivivere l’apparire spontaneo e immotivato del mondo: essa non ci mostra delle immagini del mondo, ma il mondo che diviene immagine per un soggetto, il mondo allo stato nascente.