In questo volume Giuseppe Cambiano ripropone il titolo di un celebre testo di Italo Calvino e tenta di rispondere a una questione quanto mai complessa e urgente. Per farlo, ci accompagna lungo un percorso che a partire dall’ermeneutica ottocentesca approda agli esiti della filosofia analitica e della tradizione interpretativa postmoderna, attraverso un costante confronto con Nietzsche e Heidegger, Gadamer e Rorty, solo per ricordare alcuni tra i pensatori citati. Restringendo la nozione di «classico» ai soli testi filosofici dell’antichità, suo oggetto privilegiato di studio, Cambiano individua il filo rosso che ha contrassegnato la storia della loro lettura nel cosiddetto «restauro cosmetico», cioè nel tentativo perpetrato da alcuni interpreti di espungere dal testo gli aspetti ritenuti sconcertanti o inaccettabili, per attribuire ad altre caratteristiche, più vicine ai valori del lettore, il significato autentico dell’opera. Tale operazione arbitrariamente discriminatoria, che non ha permesso e non permette di valutare appieno la feconda ambiguità di cui sono spesso depositari i testi classici, risulta evidente nella riflessione di Gadamer. La sua lettura dell’opera di Platone, ad esempio, non solo sorvola sulle considerazioni eugenetiche contenute nella Repubblica, ma sottovaluta anche la critica alla scrittura formulata nel Fedro e, nel complesso, fornisce un’interpretazione riduttiva dello stesso dialogo socratico, facendolo impropriamente assurgere a modello per la pratica ermeneutica.
Due sono le principali obiezioni che Cambiano muove a Gadamer nei saggi centrali del volume. In in primo luogo, il filosofo tedesco non avrebbe riconosciuto, soprattutto nel suo capolavoro Verità e metodo, la connessione vitale tra ermeneutica e critica teorizzata da Schleiermacher e Boeckh. Tale atteggiamento sarebbe in parte la conseguenza di una duplice accusa rivolta da Gadamer alla pratica filologica: da una parte, quest’ultima risponderebbe alla volontà illuministica di contestare l’autorità e la tradizione; dall’altra parte, presenterebbe una struttura mutuata dalle scienze naturali, quando invece le sue origini andrebbero rintracciate nell’esegesi biblica. Secondo Cambiano, Gadamer trascura i momenti cardine dell’attività ermeneutica (quali il sospetto, il controllo, la comparazione tra letture differenti, la revisione), negando in tal modo sia la possibilità di un’interpretazione erronea sia la responsabilità, soprattutto etica, che grava sulle spalle dell’interprete. Non solo: il mancato riconoscimento della circolarità tra ermeneutica e critica lo avrebbe condotto a insistere su una presunta atemporalità e astoricità dei testi classici e a condividere quell’atteggiamento reverenziale, per non dire cultuale, verso di essi che era già emerso durante il convegno organizzato da Jaeger nel 1930 a Naumburg, cui Cambiano significativamente dedica il saggio che apre la raccolta.
Inoltre, ed è questa la seconda obiezione, Gadamer avrebbe descritto l’atto ermeneutico soltanto in termini di dialogo a due tra l’interprete e il testo (l’interprete sarebbe, infatti, in ascolto della verità proveniente dal testo e non sussisterebbe alcuna differenza fra lui e un altro semplice lettore), relegandolo così in una dimensione eminentemente privata, che non tiene in debita considerazione il terzo polo ermeneutico, rappresentato dai destinatari dell’interpretazione stessa. Alcuni autori contemporanei si sarebbero spinti addirittura oltre e, a partire da una lettura distorta di Nietzsche (un altro esempio di restauro cosmetico), avrebbero finito per dissolvere il testo in infinite interpretazioni ritenute tra loro equivalenti, come se fosse possibile eliminare l’eventualità di operazioni ermeneutiche false o sbagliate. Contro tale forma di soggettivismo assoluto Cambiano propone di recuperare la dimensione oggettiva e materiale del testo – incarnata in primo luogo dall’elemento della scrittura -, una dimensione che continua a sussistere e a "resistere" al di là delle molteplici letture cui il testo stesso potrebbe essere soggetto: anziché per il restauro cosmetico, bisognerebbe optare per un «restauro di restituzione» o «di mantenimento», che includa anche inevitabili incongruenze. Non è dunque un caso che il nome di Nietzsche ritorni anche nel penultimo saggio della raccolta, dedicato agli usi della storia, una disciplina spesso a rischio di restauri cosmetici, al pari dei classici della filosofia.
In conclusione, dopo aver discusso e criticato le risposte più frequenti alla questione di fondo del libro (si leggono i classici in nome del loro valore estetico, della loro attualità o della loro irriducibile diversità), Cambiano propone una sua personale ricetta: il ritorno ai classici non dovrebbe essere animato dalla volontà di definire un canone che «vada d’accordo con le nostre scelte di valore», ma dovrebbe rivelarsi un esercizio utile alla formazione di cittadini «almeno parzialmente liberi» e dotati di spirito critico, capaci anche di valutare le letture talvolta forzate che di quelle opere sono state fornite nel corso della storia.