L’ultima opera di Dworkin, che raccoglie le Einstein Lectures tenute all’Università di Berna un anno prima della sua morte, è la testimonianza – forse la più vibrante – di uno dei percorsi intellettuali più originali e influenti nella filosofia anglosassone della seconda metà del Novecento. Dworkin considerava se stesso un "riccio", ovvero – stando alla celebre distinzione tra "ricci" e "volpi" tracciata da Isaiah Berlin – uno di quei pensatori la cui intera riflessione gravita intorno a una singola intuizione centrale: la sua vasta produzione, già un classico della filosofia del diritto, si sviluppa infatti con notevole coerenza intorno ad alcuni assunti basilari di fondo, radicati nella tesi forte dell’indipendenza metafisica del mondo del "valore" rispetto a quello dei "fatti". Per Dworkin, l’idea di fondare le nostre valutazioni morali su proposizioni fattuali o scientifiche è semplicemente un errore categoriale: come sintetizza nella sua opera di riferimento Giustizia per ricci (Feltrinelli), «i giudizi di valore sono veri, quando sono veri, non in virtù di una qualche corrispondenza ma alla luce dell’argomentazione sostanziale che può essere prodotta a loro favore. Il regno della morale è il regno dell’argomentazione, non dei fatti nudi e crudi» (p. 24). I nostri giudizi di valore possono ambire a rivendicare una verità del tutto oggettiva e autonoma, che dipende essenzialmente dalla nostra capacità di articolare validi argomenti per giustificarli pubblicamente. Ciò non vuol dire affatto che la discussione morale possa essere considerata un mero esercizio retorico: esprimere un giudizio di valore implica infatti un atto di piena responsabilità personale, l’assunzione di un impegno morale che ci coinvolge integralmente. La verità morale è ciò che si pensa "realmente" e "responsabilmente". L’invito di Dworkin è quello di "prendere sul serio" la nostra responsabilità e soprattutto, kantianamente, la nostra dignità morale: «dobbiamo riconoscere, come l’interesse cardinale fra tutti i nostri interessi, l’ambizione di fare delle nostre vite delle buone vite: autentiche e dotate di valore anziché sordide e degradanti. In particolare, dobbiamo avere a cuore la nostra dignità» (p. 27).
In Religione senza Dio tale sguardo è rivolto alle questioni ultime del nostro stare al mondo, quali il valore e il senso della vita e la nostra speranza in un qualche genere di immortalità. Il "sorriso sincero e stanco" con cui Dworkin affronta la malattia che lo condurrà alla morte, ricordato da Salvatore Veca nella sua prefazione, arricchisce queste pagine di una peculiare profondità interiore e getta nuova luce sulle convinzioni di fondo che hanno animato l’intera ricerca del filosofo e giurista americano. L’autonomia della sfera del valore vale qui a fondare un’idea di religione intesa come «visione del mondo profonda, speciale ed esaustiva, secondo la quale un valore intrinseco e oggettivo permea tutte le cose» (p. 17). La vita e l’universo sono compenetrati da un valore che è del tutto indipendente da qualsiasi ricostruzione fattuale delle loro origini e delle loro leggi: che si creda in un Artefice intelligente oppure nell’evoluzione darwiniana, non si può fare a meno di riconoscere l’intrinseca bellezza di tutto ciò che esiste. L’atteggiamento religioso non dipende dunque dalla devozione per una divinità trascendente, quanto piuttosto dalla nostra meraviglia davanti all’universo: quest’ultima accomuna teologi e fisici da Rudolf Otto e Paul Tillich fino ad Albert Einstein, secondo il quale «sapere che ciò che ci è inaccessibile esiste realmente, manifestandosi come la più grande saggezza e la più grande bellezza che le nostri deboli facoltà possono comprendere in forma assolutamente primitiva: questa conoscenza, questa sensazione, è al centro della vera religiosità» (p. 18).
Nel secondo capitolo, tratto dalla Lecture significativamente dedicata a Faith and Physics, Dworkin ricorda come le più grandi scoperte scientifiche, dall’eliocentrismo di Copernico fino alla relatività generale di Einstein, siano state guidate dalla ricerca – intuitiva prima che razionale – di un’armonia segreta, di una teoria semplice ed elegante che svelasse «la bellezza ultima, onnicomprensiva» (p. 60) soggiacente all’apparente disordine del mondo. In quelle regioni della fisica contemporanea dove il rigore delle leggi matematiche si coniuga con la speculazione cosmologica un tempo appannaggio di filosofi e teologi, bellezza e simmetria sono tuttora i "valori cognitivi" che orientano la formulazione di nuove teorie. Il tentativo di associare la tesi del valore intrinseco dell’universo al "sentimento del sublime" avvertito dai fisici al suo cospetto è probabilmente il proposito più ambizioso dell’autore (e forse anche quello più facilmente esposto a obiezioni filosofiche e scientifiche).
Ad ogni modo, postulare un atteggiamento religioso svincolato dalle opinioni sull’esistenza e la natura del "Dio della Sistina" consente a Dworkin di porre in rilievo, nel terzo capitolo, l’intento essenziale delle sue riflessioni, che si inseriscono in un dibattito giuridico e politico particolarmente acceso nella sfera pubblica statunitense: se la religione è intesa come una postura morale nei confronti del mondo, condivisa da atei e credenti, l’idea di "libertà religiosa" perde ogni specificità rispetto a quella più generale di "autonomia etica". La "religione senza Dio" di Dworkin è dunque «un insieme di convinzioni etiche e morali profonde» (p. 117) il cui valore non è in nulla corroborato o indebolito da argomentazioni scientifiche o teologiche: da ciò segue che ogni individuo, in quanto autonomamente responsabile, ha il diritto e il dovere di fare valere le proprie ragioni morali nel pubblico confronto democratico, senza ricorrere all’autorità ultima e dogmatica di un garante divino, di un giudice ultraterreno, o delle leggi della scienza.