Quando nel 1932, tra lo stupore degli stessi archeologi della Yale University e de l’Académie des Iscriptions et Belles Lettres, riaffiorò dagli scavi l’antica sinagoga di Dura Europos, le convinzioni sull’aniconismo giudaico vennero messe seriamente in discussione. La sinagoga, costruita alla metà del III secolo d.C. nella cittadina situata tra Aleppo e Bagdad, conservava pareti interamente affrescate che davano l’idea di qualcosa di più di una casuale e timida decorazione sfuggita ad una generalizzata proibizione di rappresentazione iconica. Oggi sappiamo che Dura Europos non è un caso isolato e che numerose raffigurazioni si trovano in altre sinagoghe (Beth Alpha, Cafarnao, Marus, Gerasa, Na’aran, Ma’on) e nelle catacombe ebraiche di Roma del I secolo. Se si accetta la tesi di una diffusa utilizzazione di immagini anche in luoghi culturali o comunque adibiti allo studio e alla preghiera – osserva Francesca Calabi, docente di Storia della Filosofia antica all’Università di Ferrara – si deve modificare l’immagine rigida trasmessa da gran parte della letteratura ebraica e da quella parte della critica che postula ripetutamente il richiamo ai divieti a raffigurare contenuti nell’Esodo, nel Levitico e nel Deuteronomio, ripresi in testi posteriori biblici ed extra biblici. Se è vero, infatti, che le immagini sono particolarmente esecrate dai rabbini non appena può affiorare anche un semplice sospetto di idolatria, è altrettanto vero che l’elevato numero di trasgressioni alla regola induce a pensare che di trasgressioni non si tratti. Assai forte ai tempi di Flavio Giuseppe, in seguito allentato e poi nuovamente in auge con le istanze iconoclaste del V-VI secolo d.C., l’aniconismo non esprime solo il rifiuto dell’idolatria e dell’assimilazione ai gentili, ma anche l’idea che la determinazione implica finitezza e morte e si contrappone all’inesprimibile e all’illimitato. Gran parte delle immagini di Dura Europos è tuttavia costituita da simboli ebraici legati al culto del tempio di Gerusalemme, distrutto nel 70 d.C., quindi non tanto rappresentazioni di una realtà quotidiana, quanto segni allusivi di una realtà distrutta, Si potrebbe ipotizzare – sostiene l’autrice – “che le immagini più che a raffigurare siano finalizzate ad alludere, abbiano cioè, un valore di indicatore, di rimando ad una realtà troppo alta o troppo lontana perché sia affrontata nella sua immediatezza (…). Dopo la distruzione del Tempio e la rovina di Gerusalemme essi costituiscono un topos dell’immaginario, un riferimento di speranze e di nostalgie, il richiamo a promesse che verranno indubbiamente realizzate, ma non necessariamente in tempi vicini”.