Nella sua precedente raccolta di saggi I frutti puri impazziscono, recentemente ripubblicata, Clifford analizzava la crisi dell’autorità etnografica nell’antropologia sociale a partire dagli anni Cinquanta. Con la decolonizzazione gli occidentali perdevano il monopolio degli studi etno e antropologici, e si svelavano così le implicazioni politico-epistemologiche della scienza etnografica relative alla definizione e descrizione di ciò che erano, o dovevano essere, le culture altre. Riconosciuta la condizione di perdita di centralità in un mondo di distinti sistemi di significato, restava da capire quale sarebbe dovuto diventare l’oggetto di studio di un’etnografia moderna, a questo punto inscindibile dall’antropologia. Di questo si occupa il singolare collage, come l’autore stesso lo definisce, di saggi accademici, incursioni letterarie, riflessioni autobiografiche che compongono Strade. Clifford elegge come oggetto della sua ricerca non le impossibili entità autonome rappresentate da culture mai venute in contatto con l’Occidente, ma le interrelazioni che popoli costantemente in movimento creano fra loro: il viaggio e la diaspora come elementi di traduzione culturale. Tramontata l’immagine dell’etnografo viaggiatore, che partiva da un centro per andare alla ricerca di differenze in un di fuori, spesso lontano, inaccessibile e per questo “puro”, ormai irrimediabilmente perduto con l’avanzare del mercato e del sistema industriale, Clifford raccoglie esempi di nuove pratiche spaziali, nella scelta del campo di ricerca, per una disciplina dai confini sempre più incerti fra etnografia, antropologia e studi culturali. Per reagire al tempo stesso alla visione celebrativa del modello omologante della società dei consumi ed al pessimismo annichilente di chi si arrende alla sua intrinseca violenza, Clifford evidenzia come sia possibile situarsi e situare la propria indagine nello spazio e nel tempo per sottrarsi al meccanismo dell’inevitabilità che permea i discorsi sulla globalizzazione, per riconoscere che “nulla è stato fissato”: identità culturali vivono, o addirittura risorgono a distanza di decenni, mutuando simboli e istituzioni della cultura occidentale, senza per questo essere “occidentalizzate”, e obbligano le società industriali ad una riflessione su se stesse e la propria natura. Migrazioni, decimazioni, definizione ed annullamento di confini politici restano processi in moto, opere non complete: sopravvive nelle zone di attraversamento dei confini la possibilità per l’affermarsi di culture translocali ed in queste risiede, secondo Clifford, la possibilità di un riconoscimento reciproco tra popoli.