Il volume costituisce la seconda raccolta postuma di saggi di Renzo Fabris (1929-1991), dopo L’olivo buono (Brescia, Morcelliana 1995). Nella prefazione a quel testo, l’amico Bruno Hussar – il domenicano fondatore di Nevè Shalom-Waahat as-Salaam, il “Villaggio della pace” sito in Israele – lo definiva, ebraicamente, un “ba’al chazon”, vale a dire un uomo di sogni, di visione: il che “gli permetteva di discernere, attraverso gli atteggiamenti e le parole prudenti della gerarchia ecclesiastica, i barlumi di speranza in un’apertura che troverà la sua espressione esplicita più tardi, quando il tempo sarà maturo”. E davvero i materiali riuniti qui dall’amorevole attenzione di Franca Ciccòlo, la moglie di Renzo, confermano la vocazione autenticamente profetica di un uomo, fra l’altro primo presidente del SIDIC (organismo per il dialogo cristiano-ebraico), docente universitario e manager di impresa, che ha saputo anticipare pioneristicamente quanto la chiesa cattolica farà suo successivamente, prima col documento conciliare Nostra Aetate e poi con una ormai lunga serie di gesti di apertura dei pontefici Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II. Ripercorrendo in maniera partecipata le tappe dell’incontro fra Israele e le chiese del secolo che volge al termine, l’autore analizza criticamente il cammino percorso, suggerendo inoltre nuove ipotesi di lavoro in direzione futura: in tal modo, emerge da queste pagine la profonda convinzione che l’unità dei due popoli – seguendo una suggestione offerta dal profeta Ezechiele in 37,17 – sussiste già nella mano di Dio, sia pure in modo misterioso; e che Israele, come tale, è già l’interrogativo fondamentale posto alla chiesa, è “la crisi della chiesa”. Da questo punto di vista, secondo Fabris, l’antigiudaismo tradizionale dei cristiani rappresenta il tentativo di far cessare una simile vistosa inquietudine, il rifiuto della crisi della chiesa: “Se però la chiesa accoglie nel proprio orizzonte Israele per ciò che esso è, e cioè una realtà scomoda, al tempo stesso interna ed esterna, accetta di vivere la crisi come un interrogativo permanente sulla sua identità. La presenza di Israele diviene allora per la chiesa un motivo di ripensamento della fede e la ragione di una sua continua conversione”. Solo lasciando crescere la loro capacità di ascolto e di amore gli uni per gli altri, i figli d’Israele e i figli della chiesa potranno giungere, dopo due millenni di incomprensioni e chiusure, a quella “riconciliazione nella differenza” la cui urgenza per l’umanità intera nessuno è più in grado di negare.