Con la pubblicazione del volume The Rise of the West. A History of the Human Community del 1963, lo storico americano William H. McNeill inaugurò lo studio di una «new world history» (che sarà poi formalizzato ufficialmente da Jerry Bentley a partire dagli anni Novanta con la rivista «Journal of World History»), privilegiando lo studio dei processi storici con effetti su vasta scala spazio-temporale e dando ampio spazio di discussione ai contatti fra le varie società extra-europee secondo «un approccio storico globale». Laura Di Fiore e Marco Meriggi, al di là della prospettiva «eurocentrica» che tradizionalmente ha contraddistinto la nostra concezione della storia nonché il nostro modo di fare storiografia (determinando la genesi di vere e proprie «identità muro»), avanzano diversi spunti interpretativi per rileggere la «World History» in un’ottica di «glocalizzazione» e di metissage (seguendo le indicazioni di Serge Gruzinski). Della loro esplicita adesione a questo paradigma sono riprova le considerazioni introduttive del volume, in cui si spiega che «anche dopo la scoperta e la conquista dell’America, ciò che siamo soliti considerare come la supremazia dell’Occidente non assomigliò affatto a una sorta di marcia trionfale» (p. VI), perché, in ultima istanza, «il pianeta rimase a lungo non solo sostanzialmente policentrico, ma anche soggetto all’impatto di intensi flussi di scambio materiale e di ibridazione culturale» (ibid.), ragion per cui la world history «dovrebbe allora porsi all’intersezione tra il locale e il globale» (p. 60). È ampiamente riconosciuto che il tentativo di scrivere una storia dell’umanità è legato a quella profonda rivoluzione concettuale che è stata definita non impropriamente «la scoperta del tempo». Un noto storico della scienza, Paolo Rossi, spiega che c’è una notevole differenza fra vivere in un presente relativamente vicino alle origini (disponendo fra l’altro di un Testo Sacro che traccia la scala cronologica di tutta la storia del mondo) e vivere invece in un presente dietro al quale si estende «l’oscuro abisso» di un tempo quasi infinito. Consapevoli del «passato globale del nostro presente», Di Fiore e Meriggi si richiamano alle antiche lezioni di Erodoto e dei fondatori della tradizione cinese delle storie dinastiche (Sima Qian e Ban Gu), in quanto testimonianze di un modo di fare storiografia che amplia la scala temporale e include la diversità culturale. Sulla base di questo assunto Di Fiore e Meriggi mettono bene in chiaro come a partire dal Cinquecento, e fino a buona parte del Settecento, il modello di storia universale cristiana fu costretto ripetutamente a confrontarsi con formulazioni teoriche differenti, che si basavano in larga misura sull’interpretatio naturae e che si ritrovano alla base dello studio della environmental history (p. 62). Agli albori dell’età moderna si andò progressivamente affermando un interesse per la natura che condizionò profondamente il modo di scrivere la storia (pensiamo alla Telluris theoria sacra di Thomas Burnet o agli studi geologici di Robert Hooke), con il conseguente rifiuto del mito di un’età aurea del genere umano. Così, nel 1566, Jean Bodin, nella Methodus ad facilem historiarum cognitionem, ribadiva la superiorità del sapere dei moderni che si era di fatto concretizzato nell’esibizione di una «storia mondana», in aperta competizione con la «storia sacra» della tradizione cristiana. A sua volta, Voltaire, nel suo Essai sur les moeurs et l’esprit des nations (pur restando vincolato al teleologismo della storia sacra) formulò «un modello fortemente innovativo di storia universale, in aperto contrasto con la storia clericale provvidenzialistica e al tempo stesso con la narrativa degli storici di corte» (p. 6), dando ampio spazio alla civiltà cinese, indiana e islamica. Ben consapevoli tanto dei limiti delle filosofie della storia ottocentesche (p. 127), che delle «aporie del presente» (p. 132), con ricchezza di dati e cura stilistica Di Fiore e Meriggi invitano infine a riflettere sulla necessità di scrivere una storia from below, una storia dal basso (p. 143), transculturale e di genere, che sappia muoversi «lungo scale temporali multiple».